EXILIUM_LA GRANDE CICATRICE

Exilium_La grande cicatrice è una performance poetico visuale dai Tristia di Ovidio e dalla Todesfuge di Paul Celan, creazione di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, musica di Andrea Azzali, interprete Valentina Barbarini. Ne La grande cicatrice i versi del poeta latino Ovidio scritti dalla terra d’esilio a Tomi (l’attuale Costanza) in Romania accompagnano i versi del poeta ebreo rumeno che ha vissuto in Francia, ma ha scritto in tedesco – la lingua della madre e della Shoah – la sua opera più nota (‘fuga dI morte’) dedicata all’orrore del genocidio nazista ed estesa a tutta l’umanità in sofferenza.

Exilium_La grande cicatrice è rientrato nella mappatura di eventi transmediali dedicati all’opera di Celan portata avanti dal settennale progetto PAUL CELAN IN ITALIA 2007/2014 del Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali dell’Università “Sapienza” di Roma.

Il binomio/confronto è costruito attraverso una drammaturgia visiva e materica definita da due figure femminili, Sulamith – l’Amata del Cantico dei Cantici e personificazione simbolica della nazione ebraica – dai capelli color cenere, testimonianza dell’identità giudaica arsa nei campi di sterminio della Grande Germania hitleriana e Margrete – l’Amata dell’Urfaust di Goethe, simbolo letterario femminile della nazione tedesca – donna dai capelli d’oro della tradizione umanistica ottocentesca. L’identità visiva della performance si definisce attraverso un’imagoturgia polarizzata su un grande cilindro disegnato scenicamente dentro il corpo dell’interprete, e si sostanzia in un’impalcatura installativa di forme domestico-metallico-anatomiche che, accogliendo i corpi agonizzanti di Sulamith e Margrete, rafforzano matericamente la condizione di violenza e costrizione a cui sono costretti i personaggi: il letto e la sedia, simboli primari di quotidianità, si traspongono in incubi metallici che custodiscono drammaticamente il destino tragico delle due donne. Il grande spazio del cantiere ferito e cicatrizzato dalla decostruzione urbanistica entra nella dimensione performativa testimoniando, attraverso una compenetrazione visiva estrema, la forza devastante della violenza che riporta tutto ad uno spazio comune di sofferenza.

I lunghi capelli di cenere di Sulamith – in cerca del suo amato ed esposta alla stessa violenza oscena ed indiscriminata che si accanisce contro gli ebrei – seppelliscono l’interprete in un vortice materico oscuro scandito da rintocchi sonori votati a presagi di morte: nel lento annientamento della sposa nelle mani dei suoi carcerieri – inciso in un’agonia di sbarre in cui sembra precipitare – si inscrive la condanna finale di un intero popolo. Nella disperata invocazione di Margrete, che chiede pietà prima della condanna a morte per l’uccisione della madre e del figlio neonato – appesantita di croci inchiodate ai piedi e distesa sul lettino metallico della sua cella – si affaccia l’incubo irrisolto di una nazione culla e maestra del male assoluto. Al destino tragico delle due donne si accomuna la sofferenza esiliata della parola poetica di Ovidio – suggerita da una sorta di epopea tragica collocata ai bordi della scena – condannato dai suoi stessi versi all’allontanamento forzato dalla propria terra. Il ‘Nero Latte’ (SchwarzeMilch) della Todesfuge di Celan, simbolo primario della litania della violenza a cui sono inchiodati eternamente i prigionieri ad ogni ora del giorno, scandisce – come in una ‘fuga’ musicale polifonica – il sussurro finale di un orsacchiotto di peluche, segno apocalittico d’infanzia – il ‘noi’ spersonalizzante del poeta e unica voce possibile dopo il dramma dello sterminio. L’azzeramento imposto dal paradigma della morte collettiva – l’impossibilità della parola definita dopo il dramma della Shoah – si interseca con il cantico di valorosa sconfitta del poeta e della poesia, condannati per sempre ad una condizione immanente di naufragio e di oblio.

EXILIUM_LA GRANDE CICATRICE
dai Tristia di Ovidio, Il cantico dei cantici, Urfaust di Goethe, Todesfuge di Paul Celan

creazione | Maria Federica Maestri | Francesco Pititto
traduzione | imagoturgia | Francesco Pititto
installazione | Maria Federica Maestri
interprete  | Valentina Barbarini
musica | Andrea Azzali_Monophon
disegno luci | Gianluca Bergamini | Alice Scartapacchio
realizzazioni | Luca Melegari
produzione | Lenz Rifrazioni
durata | 40 minuti
première | Parma, Lenz Teatro, ParmaPoesia Festival, 21 giugno 2009

Le poesie in esilio di Lenz Rifrazioni
Di Andrea Alfieri, Krapp’s Last Post, 19 maggio 2014

Lenz Rifrazioni ha inaugurato la nuova stagione in concomitanza con i festeggiamenti per il 25 aprile; e l’anniversario della liberazione dal nazifascismo è diventata occasione per proporre poesia e riflessione storica in un habitat di performance e arte visuale. Habitat come il titolo del progetto a cui Lenz dedica questa stagione, Habitat Pubblico 014, che nella pluralità di proposte si occuperà anche del tema della Resistenza lungo l’arco del 2015, settantesimo anniversario della liberazione.
“Exilium_ La grande cicatrice” è il riallestimento di uno spettacolo debuttato nel 2009 con cui Lenz Rifrazioni si riconfronta con l’elaborazione del concetto di esilio, intersecando i versi del poeta latino Ovidio, scritti per l’appunto durante l’esilio in Romania, con quelli del poeta ebreo rumeno Paul Celan, la cui opera più nota (“Fuga dalla morte”) è dedicata all’orrore del genocidio nazista.
La performance è un componimento visivo che accoglie l’interprete, Valentina Barbarini, in un covo di due giacigli e un tavolo di metallo, il freddo spaccato di una prigione custode di tragici destini. Un cilindro alle spalle della scena proietta immagini convesse di paesaggi industriali, cantieri e scheletri di edifici che inglobano e confinano la performer in un tempio di visioni meta-urbane.
La drammaturgia incarna due figure femminili, due simboli di altrettante culture che la storia ha opposto in drammatici conflitti, qui riunite nello spaesamento della contemporaneità fatta di gru e cemento. Sono Sulamith, l’Amata del Cantico dei Cantici e personificazione della nazione ebraica, e Margrete, l’Amata dell’Urfaust di Goethe, simbolo letterario della nazione tedesca, entrambe esiliate in un errante figura nuda.
Matrice perpetua dei progetti di Lenz Rifrazioni è la ricognizione multidisciplinare nelle tensioni filosofiche ed estetiche, così come l’indagine nelle profondità più arcane della parola. Questa ricerca si consuma in “Exilium” tramite un corpo prestato alle evocazioni più estreme del divenire poetico, un corpo che sorge da una matassa di capelli per mimetizzarsi in una sorta di fantoccio al servizio del fitto intreccio di agonie e invettive che i poeti imbastiscono.
Per quanto la creazione conceda poco all’elusione di certi disagi d’intelligibilità, lo straniante senso di oppressione della materia trattata non intacca la conseguente idea di disumanizzazione che l’installazione visiva immette nell’anima della performance.
Mentre i paesaggi sonoro-rumoristi incastrano efficacemente l’esposizione scenica negli angoscianti territori del confino, l’imagoturgia dei video fondali sembra squagliare la realtà in una vorticosa fuga che tutto appare tranne che liberatrice, inghiottita dalle forme e dagli orizzonti di un’edificazione votata al disadattamento. Due vie distinte ma che conducono entrambe alla stessa condizione umana di sofferenza e oblio.
Come spesso accade in questo genere di componimenti teatrali, è la molteplicità di visioni ed interpretazioni che arricchiscono l’esperienza dello spettatore ad essere la misura della riuscita del lavoro

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