RIFRAZIONI
Riflessioni di critici e studiosi attorno all’opera di Lenz.
#6 Emanuela Zanon
critica d’arte > Juliet Art Magazine
I luoghi sono vivi perché vengono abitati dalle persone e il loro significato non si può cristallizzare nella conservazione di un’impersonale memoria storica.
Performare in spazi monumentali e museali è un’operazione rischiosa e sensibile, da condurre in equilibrio su un filo teso: non si tratta né di ambientare l’azione in una scenografia di lusso né di arrogarsi la presuntuosa missione di “ridare nuova vita” a qualcosa che di per sé non l’avrebbe.
Siamo stati a lungo privati delle nostre bellezze storiche, degli spettacoli in presenza e anche della confortante sensazione di essere pubblico, un gruppo di individui temporaneamente cementato dalla condivisione delle stesse emozioni.
Ora, sospesi in un guardingo semi-isolamento, aspettiamo con amorosa trepidazione il momento in cui i nostri musei e palazzi storici torneranno a infestarsi di mormorii e bisbigli di storie taciute e tramandate, di miti popolari, devianze contemporanee e attestazioni di resistenza per riscoprire il senso profondo del dialogo, che forse non è mai stato così prezioso come in questo momento storico.
#5 Alessandro Malinverni
storico dell’arte e conservatore museale
Nella mia attività di docente di Storia dell’arte e conservatore di musei ho avvertito da tempo la necessità di percorrere nuove strade per avvicinare le persone all’arte.
L’esperienza da attore non professionista, iniziata a tredici anni, proseguita nel tempo con laboratori, stage e spettacoli, mi ha portato alla creazione del progetto “ArTeatro”: una sorta di laboratorio aperto che permette agli studenti e ai visitatori del Museo Gazzola di Piacenza e della Pinacoteca Stuard di Parma di vivere l’esperienza estetica in modo più coinvolgente, attraverso i linguaggi performativi.
Nell’accezione più semplice, “ArTeatro” prevede la restituzione della storia e del significato di alcune opere mediante visite guidate recitate e itineranti, che sfruttano i diversi registri verbali (prosa e canto) e non verbali (danza, movimento libero, musica…); in quella più articolata, sfrutta il doppio binario dello studio dell’opera e dell’impatto emotivo che essa provoca nell’osservatore.
Il continuo scambio tra quest’ultimo e il manufatto, permeato di elementi soggettivi e oggettivi, rende più profonda e consapevole l’esperienza di fruizione museale.
Più spesso in forma ludica, la “teatralizzazione” – leggi “estrinsecazione” – dello stato d’animo indotto dall’arte figurativa offre al soggetto stesso e a quanti partecipano e assistono alle prove e alle performance nuovi spunti interpretativi.
Al di là dell’impostazione prettamente storica che caratterizza il mio lavoro di ricercatore sui temi del collezionismo e del mecenatismo tra Sette e Ottocento, è fortissimo il fascino che l’esperienza estetica esercita su di me, più spesso innescata dall’arte contemporanea: il suo afflato irrazionale, surreale, onirico si nutre del teatro, arricchendolo e completandolo.
#4 Silvia Settimj
architetta
ADVENIAT MUSEUM TUUM
“muṡèo s. m. [dal lat. Musēum, gr. Μουσεῖον der. di Μοῦσα «musa2» (propr. «luogo sacro alle Muse»), nome di un istituto culturale dell’antica Alessandria d’Egitto]. – 1. a. Raccolta di opere d’arte, o di oggetti aventi interesse storico-scientifico, etno-antropologico e culturale; anche, l’edificio destinato a ospitarli, a conservarli e a valorizzarli per la fruizione pubblica, spesso dotato di apposito corredo didattico… (omissis)”
Questo il significato letterale di museo nel dizionario Treccani.
Storicamente il primo Museo, con la M maiuscola, fu eretto ad Alessandria d’Egitto per iniziativa di Tolomeo I. Era la casa delle Muse, figlie di Zeus, la massima istituzione culturale del mondo ellenistico per molti secoli, luogo di insegnamento scientifico e letterario, di scambio culturale fra persone colte e d’ingegno che alle Muse consacravano la propria attività speculativa.
E oggi? Oggi il museo è ancora così ed è molto di più, un entità più che uno spazio, difficile da delimitare concettualmente e da confinare in usi predefiniti.
Il concetto di spazio museale diventa sfuggente, quasi un pensiero platonico. Cogliere, ad esempio, la differenza fra museo, come tradizionalmente inteso (teca/raccoglitore/archivio di oggetti artistici) e contenitore architettonico di mostre ed eventi temporanei, appare difficoltoso.
Giulio Carlo Argan in “Intervista sulla fabbrica dell’arte” scriveva: «I musei non debbono servire solo a ricoverare le opere sfrattate o costrette a battere il marciapiede del mercato[…] Dovrebbero essere istituti scientifici o di ricerca, con una funzione aggiunta, ed essere i grandi e piccoli nodi della rete disciplinare dell’archeologia e della storia dell’arte[…] il museo non dovrebbe essere il ritiro e il collocamento a riposo delle opere d’arte, ma il loro passaggio allo stato laicale, cioè allo stato di bene della comunità: il luogo in cui davanti alle opere non si prende una posizione di estasi ammirativa, ma di critica e di attribuzione di valore».
Il museo come luogo esclusivo della conservazione e dell’accumulo di oggetti artistici rivolto ad un pubblico passivo e acritico è in effetti un concetto superato. La funzione didattica formativa resta, ma il pubblico si è trasformato e chiede che gli spazi d’arte siano prima di tutto spazi di relazione e di confronto, chiede di interagire emotivamente con il patrimonio artistico in modo critico e partecipativo. Anche virtualmente, certo, (mai come oggi) ma con meno emozioni. “L’internet of things rende più facile salvare a futura memoria i tracciati della nostra interazione col mondo. Mondo che da read-only si trasforma in read-write (l’espressione è di Lessig).“ (cit. Giuliana Bruno – ‘Pubbliche Intimità’)
Un museo che diventa luogo di scrittura delle esperienze, non più solo di lettura, non statico ma dinamico, come un film che racconta le storie generate dalle interazioni che al suo interno si creano.
In una ‘chiacchiera’ telefonica di qualche giorno fa con un amico, ideatore di fabbriche d’arte in spazi industriali dismessi, si parlava proprio di questo, dell’importanza di considerare lo spazio del museo uno spazio liquido e dinamico, da poter ‘utilizzare’ in modo flessibile e multiforme, anche in un’ottica di sostenibilità gestionale ed economica: il museo come luogo per gli incontri di lavoro, molto più piacevole ed esteticamente appagante di una fredda sala riunioni (museo-ufficio), come spazio domestico della quotidianità in cui rifugiarsi, perché ci entri e ci stai bene per il senso di familiarità che trasmette (museo-casa), come luogo di narrazione e di innesto di nuovi linguaggi teatrali (LENZ docet), “spazi storici e monumentali utilizzati per momentanee installazioni e azioni performative teatrali, music or dance that undergo temporary metamorphoses, enhancing both their status as representative buildings of the history of a community and their intrinsic willingness to become prestigious containers of the contemporary” (cit. Francesco Pititto, 2008), dove lo spettacolo si fa strumento di comunicazione, sia intrinseco dell’opera teatrale rappresentata, sia estrinseco del contenuto culturale del patrimonio artistico esposto, in grado di creare così un ponte tra l’opera e il pubblico in un contesto di senso ancor più significativo perché arricchito dalla contaminazione fra i diversi linguaggi artistici (museo-teatro) .
Nell’ambito, In the end, di una riflessione più strettamente connessa alla mia formazione, comunque non avulsa da quanto fin qui asserito, penso al ruolo strategico che il museo può rappresentare nella rigenerazione di spazi periferici degradati, come prezioso presidio di formazione e di crescita in contesti sociali critici. Museo come luogo inclusivo e di contrasto all’esclusione sociale, atto a rivestire un ruolo nevralgico di ‘medium’ culturale tra società e territorio: sono spesso così i musei di paese e di quartiere. Ciò che Simona Bodo, ricercatrice e consulente in problematiche di diversità culturale, intende quando parla di “museo relazionale per indicare la rete di relazioni che uniscono il museo al territorio, ai comunicatori sociali, alla societa’ in senso lato’”.
E’ necessario riprogettare il museo? Yes, non nel senso di favorire interventi di costruzione di nuovi contenitori fisici, ma nel ripensare la fruizione di quelli esistenti secondo nuovi usi flessibili e promiscui, rendendoli disponibili ad attività diverse, non luoghi esclusivi specializzati, ma inclusivi e contaminati, in cui sviluppare nuove relazioni tra un pubblico sempre più eterogeneo e l’opera d’arte, tra i visitatori e gli artisti, tra gli artisti e i curatori ….Un museo come narrazione di questa nuova reciprocità, in cui il visitatore, emozionato spettatore e attore insieme, si ritrova ad essere l’interprete protagonista.
Cito due musei che, più di altri, mi sembrano incarnare abbastanza bene l’idea del museo contemporaneo, solo due per necessità di sintesi: il Museo del 900 in piazza Duomo a Milano, aperto e trasparente, permeabile alla città e permeato dall’energia cittadina e il Maxxi di Roma, che si snoda come un nastro ripiegato su se stesso e nello stesso tempo proteso verso la città attraverso l’ultima propaggine della grande parete-finestra posta all’ultimo piano.
In futuro sempre di più ci rapporteremo all’idea di uno spazio generatore di nuove esperienze, un “unicum” mobile, flessibile, un po’ inafferrabile anche, che concentri in sé, e al tempo stesso dissemini, stimoli ed esperienze emotive, in una tensione energetica continua fra interno ed esterno, interiore ed esteriore, grazia e disarmonia, purezza e contaminazione .
Un “unicum” che non esiste forse, che non può esistere, non come modello spaziale/architettonico per lo meno. Ma che si sostanzia tuttavia nella sola capacità di immaginarlo, nel momento stesso in cui se ne percepisce la necessità: immaginare il museo contemporaneo non in senso fisico, ma come nuovo modello culturale cui tendere, non sempre e solo uno spazio specialistico, un ‘museo di specie’, non un luogo, ma più luoghi, non un oggetto architettonico rigido e concluso, ma uno spazio duttile ed articolato, aperto a nuove funzionalità, pronto ad accogliere ed ispirare un pubblico trasversale e non specializzato, ovvero la comunità umana.
“CHE VENGA IL TUO MUSEO” dunque!.. che ognuno abbia il suo, sia esso ufficio, bar, casa, teatro, cinema, centro sociale, che sia rispondente alle diverse esigenze di un pubblico, il più trasversale possibile, che sia fatto di interazione e partecipazione, da inventare e riscrivere ogni giorno. Il Museo totale!, pensato e progettato per chi lo fruisce, contenitore di storia, spazio di conservazione, teca/archivio di oggetti artistici e insieme motore dinamico di nuove esperienze conoscitive, artistic, formative, partecipative ed emotive. Ma soprattutto, sempre, sia luogo di educazione alla bellezza.
“La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla” – David Hume
Parma, 16 maggio 2020
Silvia Settimj
P.S.: se quanto scritto dovesse apparire a qualcuno anacronistico per non aver mai accennato ai restringimenti e limitazioni di questo periodo di contingentazione relazionale, io rispondo, da ottimista quale sono, che torneremo a veder le stelle.
#3 Carlo Mambriani
storico dell’architettura
Il legame fra arti visive e arti performative è spesso talmente stretto da sfociare nell’identità assoluta, come ad esempio nel caso degli spazi del Complesso della Pilotta, che sotto i Farnese videro un intensivo uso a fini spettacolari.
Anche escludendo la messinscena del potere costituita dal cerimoniale di corte, che tanto influsso ebbe anche sull’articolazione in chiave gerarchica degli spazi architettonici (basti pensare allo scalone, primo esempio italiano di escalera imperial), fu frequente e talvolta duraturo – come nel Teatro Farnese e nell’adiacente teatrino di corte – l’impiego di saloni e cortili per attività festive, equestri, coreutiche, teatrali e melodrammatiche.
Dopo aver riferito del foro greco a forma quadrata, Vitruvio sosteneva che in Italia si era adottata una forma diversa, a causa “dell’antica usanza di tenere nel foro gli spettacoli gladiatori. […] La sua larghezza sia equivalente ai due terzi della lunghezza, così si otterrà una forma oblunga con una disposizione particolarmente adatta alle esigenze dello spettacolo” (traduz. L. Migotto, Pordenone 1990). Con proporzioni analoghe a quelle del foro romano e con gli archi trionfali che ne richiamano gli imbocchi coperti delle viae ad forum, in particolare l’enorme spazio del Teatro Farnese sembra voler concentrare in sé tutte le tipologie antiche di architettura concepite espressamente per lo spettacolo ricordate da Leon Battista Alberti: the theatre, l’anfiteatro e il circo (ed. Portoghesi-Orlandi, p. 728).
#2 Rocco Caccavari
Presidente Onorario di Lenz Fondazione
UN LUOGO D’ARTE, UN MESSAGGIO ETERNO
Lenz, con il suo teatro contemporaneo, rappresenta i classici con un linguaggio e una pratica artistica installativa che suscitano emozioni e riflessioni.
L’adattamento dell’Orlando Furioso ha permesso alla ricerca poetica, che questo teatro continua a privilegiare, di collocare gli eventi del poema in luoghi di diversa natura, riuscendo ad unire alla fantasia dell’opera la concretezza di luoghi materiali, physical.
Questi si caratterizzano per avere una particolare relazione con i sentimenti e le condizioni di sofferenza degli esseri umani.
Uno di questi luoghi, sintesi per tipologia della potenza dei sentimenti, è il Tempio di Valera, dove la simbologia della morte è rappresentata in ogni suo valore etico, religioso, filosofico.
La cremazione della salma, la trasformazione in elementi primari, rappresenta l’atto compiuto della vita conclusa; il senso avvertito da chi sopravvive che le ceneri siano un ricordo concreto del defunto e che conservino con lui un forte legame di continuità.
Durante la dispersione, la nuvola delle ceneri che ritornano lievi a depositarsi sulla terra o nell’acqua che scorre è l’immagine stessa del ritorno: rientrare nel continuo divenire della natura, nella memoria del vissuto secondo la propria storia e i propri desideri, una nuova forma di esistere in un luogo altro, l’arte di esistere ancora.
#1 Matteo Brighenti
critico teatrale
Il tempo è un luogo d’ombra, lo spavento del desiderio. Ci sta addosso con un’abilità da funambolo e lascia i solchi della storia sui nostri volti.
Lenz Fondazione attraverso i suoi attori – ‘sensibili’ perché straordinari, straordinari perché ‘sensibili’ – sa sovvertire il luogo di cura nella cura del luogo, trasformando la malattia in ribellione poetica.
È un sortilegio invincibile di multiformi voci e diversificati corpi; sposta l’avventura di ricerca mai sazia dai metri reali degli ambienti ai confini senza più limiti dello spazio, a perdita d’occhio.
Il tentativo continuo è abbracciare l’infinità mutevole dell’uomo. Una regione cercata ogni sera e ogni sera diversa, perché inspiegabile resta il destino più di ogni cosa.