L’IMPRONTA DI UN DIO

La poesia di Bacchini rifiorisce tra specie diverse, tutte però interroganti il mistero della vita e della morte. Ognuno di questi poeti/poetesse è Segno, non lasciano segni, ma essi stessi sono il Segno. Nelle crepe del mondo vivono il silenzio e lì si accostano, riparati, al frastuono del tempo, ai fortissimo del vivere e del trapassare. Del ciclo perpetuo. La noche oscura, il lampo nero, la sragione, l’enormità senza limite dell’uomo, i sempiterni, i superni li hanno rigettati, dopo la tempesta, su rive inconoscibili, e indicibili. Lì, nella risacca, si ridonano a noi dopo il naufragio.

Io vorrei scrivere certi versi che ho in mente da tanto tempo. Una specie di Cantico dei Cantici rovesciato. “ Andrò per le piazze e per le vie, cercherò quelli che nessuno ama”. “O tu che dimori nei giardini, non farmi udire la tua voce”. Vorrei scriverlo nella lingua più moderna, quasi sul ritmo di un blue, e insieme dovrebbe essere solenne e puro – e anche terribilmente vivo – Come un piccolo Goya. E’ il Cantico dei senza-lingua.
Cristina Campo

da Juan de La Cruz, Friedrich Hölderlin, Cristina Campo, Clemente Rebora, Pier Luigi Bacchini
Mise en parole e drammaturgia | Francesco Pititto
Elementi visivi | Maria Federica Maestri
Interprete | Valentina Barbarini
Produzione | Lenz Fondazione
Durata | 35 minuti

La neonata Fondazione Lenz. Tra Juan de al Cruz e Pier Luigi Bacchini.
di Giuseppe Distefano, Artribune, 26 aprile 2015

IL DIO DI LENZ
L’impronta di un Dio unisce versi e testi oltre che di Pier Luigi Bacchini, Clemente Rèbora, Friederich Hölderlin, Cristina Campo e Juan de la Cruz, figure che interrogano il mistero della vita e della morte. In questa mise-en-parole di Maria Federica Maestri e affidata all’interpretazione di Valentina Barbarini, confluiscono, formando un unico corpo drammaturgico visivo e sonoro, le immagini di potente corporeità di Francesco Pititto e la ricerca sonora di Andrea Azzali.
Su tre grandi schermi, l’iniziale candore di due corpi nudi sfuma sulla forma rotonda di teste rasate a stretto contatto; che sfumano, a loro volta, sulla forma di tre palloni; quindi su quella di pianeti immersi nel buio astrale; e alternati alla sequenza effigiante tre fisici, di cui uno simile alla lupa romana al cui seno le altre succhiano il latte. A legare le immagini e i versi, in un viaggio interiore alla ricerca dell’impronta di Dio, è, nella vibrante penombra, il corpo poetico della performer. Prima indossando una maschera di lattice per declamare la preghiera di Juan de la Cruz, “Vivo senza vivere in me, e così spero, que muero porque no muero”; poi, mostrandosi a volto scoperto. I versi di Cristina Campo sono pronunciati con la maschera di una tigre.
Di volta in volta vengono assunte posture con sguardi supplichevoli, adoranti, smarriti, fino alla posa di una crocifissione. In queste stazioni dell’anima – tappe solitarie di echi lontani dal frastuono del tempo, voci riemerse dal naufragio della notte oscura – le parole conclusive del mistico spagnolo, “per arrivare, … per avere, e … per non ostacolare il Tutto”, risuonano in scena, luogo epifanico dell’incarnazione che allude a una presenza divina. La stessa che, spostandoci nella Sala Majakovskij, emerge in Canciones del alma

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