L’ho fatto io il fatto
Anche la finzione più esplicita ha l’intento di sostituirsi alla realtà così come la più problematica e cruda verità ha per fine ultimo l’improbabile scomparsa di quel confine. Il teatro non è la vita a meno che la vita non sia il teatro. C’è un solo attore per il quale questa equazione potrebbe essere vera: l’attore che non conosce quel confine, l’attore che non gioca un ruolo ma se stesso, l’attore che abita la scena come la vita”. Così abbiamo scritto, diversi anni fa, sull’attore sensibile e sulla restituzione al teatro di quella parte virtuale – della vita – indispensabile a ricrearne il senso comune, l’utilità collettiva.
L’aver posto come testo d’indagine il Macbeth di Shakespeare porta, poi, le questioni direttamente al centro, al compimento di un’azione decisiva, di un fatto determinante per la biografia dell’attore e dei protagonisti del dramma: “l’ho fatto io, il fatto. Ho udito io il gufo urlare e i grilli lacrimare. Credo d’aver sentito: Sonno non più! Macbeth ha ucciso il Sonno, l’innocente Sonno.” Il delirio, il senso di colpa, le visioni, la morte sono paragrafi di una vita vissuta e testuale che si sovrappongono all’interno di una sfera di cristallo dove destini, streghe e sangue piovono dall’alto come neve, dopo aver capovolto e rimesso in sesto la sfera stessa. L’attore diventa allora davvero l’immagine cristallo del proprio passato e del proprio presente, i versi di Macbeth e della Lady, così come quelli delle streghe sembrano uscire, con tecnica sconosciuta e solo minimamente corretta, come lame di coltelli che volteggiano reali e non frammenti di un sogno delirante. Il dialogo a distanza, reale e virtuale, tra l’attore detenuto nel suo luogo/castello e l’attrice performante nella sua scena teatrale diventa scambio di voci e sussurri di due Piramo e Tisbe contemporanei; i due amanti e complici sono distanti e in mezzo sta il muro del vivere civile e della società reale.