EXILIUM

La materia contorta e piegata, il design del pensiero si dispone in uno spaccato, come un rilievo, cinemascope del presente esiliato. Gli oggetti, freddi e lucenti, arredano il pavimento base d’acciaio, dentro i confini del Paese di Exilium. Appena fuori, in terra già straniera, agiscono i corpi che, esponendosi nella più intima occupazione, ri-formano epifanie e parentesi di memoria vitale, umana, sociale. Ma è finzione, reale è solo l’abitare – room dello show – del ricordo, del rimando, del gesto d’addio, e poi del ritorno. Le immagini, al di sopra come nel cielo, come quadri seriali rigettano spezzoni dell’altrove appena avvertito, tastato, ricercato nella patria in esilio – Bucaresti, Costanta – di chi vive in quella lontana, l’Italia. Ma anche là si è lontani, soli, lo sguardo dell’uomo al balcone non riconosce la folla che passa di sotto. Lo sguardo è al confino, nel tempo di ieri.
Ancora “Io qui o io non qui”: questo è il punto, il vero problema di chi vive lontano. L’infanzia è cantata in una lingua sconosciuta – il polacco ? – e le scimmie e le tigri rientrano nelle gabbie arredate da rocce d’acciaio. Le parole si adagiano sulle asperità delle cose, tra queste una vela che può solo annegare, morire come una donna sul fondo di ogni mare.

 

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