«È un’ulteriore, audace e potente indagine drammaturgica tra passato e presente, tra memoria e contemporaneità, quella compiuta da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, progetto attorno e dentro a un’opera che non esiste, della quale si hanno tracce sparse, indizi frammentati. L’incompiuta è il Re Lear di Giuseppe Verdi, opera mai musicata e di cui esiste solo il libretto di Antonio Somma contenente le correzioni dello stesso compositore. Opera sempre desiderata, tesa a scavare nell’animo della figura del re/padre/folle, ma mai portata a compimento».
Il noto critico teatrale Giuseppe Distefano, dopo la prima presentazione di Verdi Re Lear – L’Opera che non c’è_Premessa alla 19a edizione del Festival Internazionale Natura Dèi Teatri nel dicembre scorso, annota: «La visione pittorica-installativa è la silhouette di un gruppo immobile disposto attorno a un trono posto sul fondo della scatola scenica e reso evanescente dai tre velari trasparenti dove, a più livelli di proiezioni, scorrono le immagini di un uomo, Lear, di cui udiamo la voce. Sui dettagli del suo corpo, raggomitolato o accasciato, indugia l’occhio della telecamera quasi a farne una mappatura, indagandone i moti e le ferite dell’anima […] Trovano altri momenti di autentica emozione le plastiche deposizioni dal trono a terra, il lento incedere e posizionarsi, il trascinare una corda al guinzaglio e le “arie” sparse – nel finale dal Simon Boccanegra, “Come in quest’ora bruna…” – che costellano l’universo verdiano sulla tragedia della paternità, resa da Lenz epifania scenica del desiderio».
Verdi Re Lear abita le due grandi sale di Lenz Teatro, con il pubblico dinamico invitato a transitare fra i due spazi. Maria Federica Maestri, che dello spettacolo cura drammaturgia dello spazio, installazioni e costumi, suggerisce i motivi di questa scelta inconsueta: «La concatenazione temporale di due piani spaziali separati conserva ed esalta la duplicità dell’immagine semi-virtuale di quest’opera che collega reale e non reale, tracce e desideri: la materialità dei corpi, dialogando con l’immaterialità dell’immagine, genera un’immagine-sogno. Costruita per strappi, sottrazioni e salti, l’immagine semi-virtuale produce un continuo sganciamento dall’immagine coerente del mondo; analogamente gli spettatori in fruizione delocalizzata, in transito soggettivo, nel passaggio da spazio a spazio, perdono l’unità e la linearità drammatica della visione tradizionale, e in totale assonanza con la forma artistica del lavoro – dare forma scenica ad un desiderio – ricompongono una propria personale opera-ricordo». Conclude Francesco Pititto, responsabile di ricerca, drammaturgia, imagoturgia e regia di questo progetto siderale: «Dare forma a un desiderio, dopo averne scandagliato gli impulsi primari e le manifestazioni più nascoste, è percorso affascinante di ogni ricerca linguistica; vestire un fantasma e vederlo muoversi solo attraverso il movimento delle stoffe è già averlo consegnato al mondo reale che, shakespearianamente, è fatto di sogni e di niente».
La consulenza musicale per la selezione dei brani di repertorio di Verdi Re Lear è del M° Carla Delfrate, la consulente al canto è la Prof. Donatella Saccardi. Performer: Valentina Barbarini (Cordelia/Delia), Barbara Voghera (Fool/Mica), Giuseppe Barigazzi (Lear in immagine). Cantanti: Haruka Takahashi (Regan/Regana, soprano), Ekaterina Chekmareva (Goneril/Gonerilla, mezzosoprano), Gaetano Vinciguerra(doppio Lear, baritono), Lorenzo Bonomi (doppio Lear/Edgar/Edgardo, baritono), Andrea Pellegrini (doppio Lear, basso), Adriano Gramigni (Gloucester, basso). Voce over di Rocco Caccavari. In scena Rocco Caccavari, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Carlo Destro e Paolo Pediri. Assistente alla regia: Valeria Borelli. La direzione tecnica è di Alice Scartapacchio, la produzione è di Lenz Fondazione. Verdi Re Lear è realizzato in collaborazione con il Conservatorio di Musica “A. Boito” di Parma.
Enrico Pitozzi su Verdi Re Lear
Spectra | Anatomia per un teatro di voci
Ci sono sempre almeno due piani dell’immagine.
Uno rimanda al regime del visibile, l’altro a quello sonoro. L’uno, quello del visibile, agisce nell’immediato; per questa sua caratteristica è localizzabile, visibile appunto. L’altro, quello sonoro, è connaturato da una certa discrezione, agisce come nell’ombra, in modo diffuso, si esprime nella durata; per questa sua caratteristica non è localizzabile, non possiamo con esattezza stabilire da quale punto dello spazio proviene. È acusmatico, la sua peculiarità non è l’evidenza, bensì la profondità; la sua logica non è quella dell’evento, bensì quella dell’efficacia.
II. Si potrebbero così sintetizzare, a mio modo di vedere, i tratti che illuminano la versione del Re Lear di Verdi – ispirato a Shakespeare – che Lenz Rifrazioni – ora Fondazione porta in scena per il centenario verdiano. Lavoro di cui esiste il libretto, ma non la partitura musicale. Esistono le parole, non la loro temperatura sonora. Siamo così, dice bene Lavagetto, di fronte a “Il fantasma di un’opera”.
Fantasma, infatti, deriva dal greco ϕάντασμα e organizzato intorno a ϕαντάζω «mostrare», ϕαντάζομαι «apparire». Da un lato, tale declinazione rimanda al farsi immagine di qualcosa che non ne ha ancora lo statuto. Dall’altro, invece, fantasmadice di qualcosa che «accenna», «suggerisce» senza dire pienamente, lascia intravedere perché testimonia un’incompiutezza, o meglio la pervasività di un temache ha segnato tutta la produzione di Giuseppe Verdi; solo che l’ha fatto sottotraccia, come una scossa intensa e diffusa, fino ad abbracciare molta della sua produzione operistica che, a differenza di questo Lear incompiuto, ha visto la luce.
Dunque è in questo territorio fatto di frammenti sparsi, detriti, elementi magnetici e ritorni che si disegna la costellazione che sta intorno alla versione di Lenz. Per questa ragione ne deriva un Re Lear fantasmatico, in cui sia la composizione scenografico-installativa firmata da Maria Federica Maestri, che l’imagoturgia di Francesco Pititto, lo enunciano dichiaratamente, dando luogo a una continua sfocatura – un’impossibilità a vedere chiaramente – che produce sospensione, come in una evocazione o una evaporazione: in ogni caso, un’epifania inattesa.
III. Qual è allora la strategia che Lenz adotta in questa visione verdiana? Rispondere a questa domanda ci rimette in linea con il punto di partenza, con i due piani dell’immagine sopra evocati.
Il sospetto è che Maestri e Pititto lavorino per sottrazione – altra componente operativa del pensiero musicale verdiano; una sottrazione che libera la forza trascinante della musica, là dove la parola del canto diventa sonorità, phoné: materia che dice, prima e oltre il significato stesso della parola, la pulsione sonora della voce. Ne è prova quella che potremmo definire, sulla scorta di Roland Barthes, una scrittura ad alta voce alla quale Verdi, ricordiamolo ancora – di questo Lear manca interamente la partitura musicale, ma ne esiste il libretto – sembra guardare e che Lenz rimarca nella messa in scena: l’elemento musicale è la voce stessa, essa non è accompagnata da nessun suono che non sia espressione della vocalità.
Quella di Verdi, in altri termini, è la composizione vera e propria di un coro di voci, materia sonora attraverso la quale liberare la potenza creatrice della musica. Ed è qui che Lenz compie un passo decisivo nella direzione di Verdi – perché di questo si tratta, di un Re Lear concepito nello spirito della musica di Giuseppe Verdi. I cantanti presenti in scena – due attrici in funzione di Fool/Mica e Cordelia/Delia, un attore Lear in video, due baritoni a dar forma al doppio Lear in scena, una soprano Nerilla, e una mezzosoprano Rosane/Delia – sono disposti come attivatori sonori, voci che letteralmente appaiono come da un aldilà, figure che attualizzano la potenza del canto. C’è un velo, al contempo materiale – il tulle – e immateriale, quasi metafisico, che accompagna questo lavoro.
Non saprei come nominarlo se non riconducendolo al pulsare della vita, perché chiama in causa l’esistenza stessa: c’è qualcosa che tocca il fondo della vita e il suo prolungamento, così come la ragione e i suoi processi, è una sorta di vittoria contro la morte ad essere evocata in scena, perché non c’è altra verità se non questa coincidenza con il presente, sempre però con un leggero scarto, come di lato, come a segnare – nonostante tutto – una mancanza, un non ancora, un incompiuto.
Perché questo?
Perché la musica qui, nella geometria del pensiero verdiano, è l’immagine della ragione o meglio, come dice Gille Deleuze, la ragione in atto. La musica ha il potere – e questa messa in scena di Lenz lo rivendica a più riprese – di innestare il movimento delle cose; fa letteralmente esistere le cose a partire dal loro fondo oscuro, innominabile. Sospende il tempo, ritarda il disastro.
A dare forza a questo divenire delle forme che si susseguono in scena, si innesta la collaborazione con il sound artist Robin Rimbaud aka Scanner che, sulla scia del pensiero librettistico, elabora una serie di composizioni sonore, in un concatenamento che non è pensato per accompagnare il canto, piuttosto per delineare quella che potremmo chiamare una vera e propria dimensione sonora dell’immagine: l’immagine sonora – il suo potenziale atmosferico – è quella che dà la texture di fondo alla scena e in base alla quale l’immagine visiva si definisce. Dunque, così come esiste un’immagine visiva, sulla scena di Lenz sembra emergerne con forza una di tipo uditiva. Non si tratta qui soltanto di cogliere ciò che si manifesta all’udito: questa immagine alla quale Scanner contribuisce, ha a che fare con ciò che sta dentro l’ascolto, bisogna individuarne le caratteristiche e il punto raccolto nel quale agisce l’intensità che fa di una materia sonora un’immagine e che, di conseguenza, ridisegna i caratteri dell’ascolto. Apre lo spazio perché la voce, in scena, possa lasciare traccia. Fuggevole, s’intende, come un bagliore. Una macchia di luce su un fondo antracite. È dunque il suono – nella doppia prospettiva del Teatro di voci e dell’atmosfera acustica – che detta la temperatura, l’accordatura tra gli elementi della scena. In questa cornice l’immagine visiva ne è il contrappunto, un piano, un punto di fuga.
IV. Lo spettatore è così posizionato idealmente all’interno di questo perimetro sonoro, di fronte alla visione, posizione dalla quale è possibile avvertire tutte le loro varianti, le loro impercettibilità. Partendo da questo punto raccolto nel suono – da quella che abbiamo chiamato immagine acustica – ricostruire la musica che il suono nasconde. Forse è proprio questa la sfida che Lenz raccoglie con questa messa in scena impossibile. Impossibile perché, letteralmente, è oltre ogni possibilità: nucleo magmatico, indefinito, al quale tentare – nonostante tutto – di dare una forma.
Non resta, a questo punto, che risolvere l’ultimo passaggio: di che ascolto parliamo, dunque, con questa opera?
Ascoltare qui, come in altre produzioni di Lenz, è un divenire: divenire suono, divenire fonema, materia, pulsazione vocale. Seguire questo processo richiede un’estensione percettiva dell’ascolto, un lasciar penetrare il suono e divenire, al contempo, suono nell’ascolto. Solo così l’imagoturgia – la logica della visione delle immagini – acquisisce la sua piena efficacia: agisce in modo latente.
Serve dunque un corpo timpano, un corpo prisma, per percepire questi fantasmi: solo un orecchio impossibile capta l’inudibile; solo un occhio capace di penetrare le forme vede davvero e per l’ultima volta ciò che gli sta di fronte.