ATTESA ROSSA
Maria Federica Maestri
Potersi ispirare direttamente ad una delle artiste di riferimento del proprio percorso creativo è insieme trappola estetica e rifugio concettuale. Non cercherò di stare in equilibrio, ben bilanciata tra le parti, ma oscillerò in ‘partition’, divisa tra la memoria dolorosa delle sue ferite – il terrorismo sentimentale di Gina Pane – e la poesia del sacro forza generatrice di gioia delle sue ultime opere. Per cadere e rialzarsi saremo corpi multipli, esorciste e avventuriere del nostro mondo sommerso. La scena dedicata a Gina Pane non è la tela su cui dipingere di tinte cupe la ferita, ma lo spazio vivo in cui erigere il monumento al corpo non domato né sottomesso al proficuo funzionare del discriminante abilismo del nostro tempo.
Nei primi anni della mia formazione l’esperienza estrema di Gina Pane ha rappresentato un paradigma di bellezza inarrivabile. La sua concezione dell’atto artistico azzerava le categorie dell’arte conveniente ‘sbalzando’ ogni mia sicurezza intellettuale, mi imponeva una presa di posizione iniziale di fronte alla deriva dell’arte bonaria. I sentimenti di Gina Pane costringevano ad una scelta di campo morale: il rifiuto dell’opera d’arte come dispositivo di seduzione e compiacimento decorativo.
La potenza apocalittica insieme intima e pubblica delle sue azioni è stata capace di svelare una dimensione inedita e destabilizzante del sacro. Il corpo di Gina Pane è un manifesto discordante di pulsioni spirituali e di ricognizioni politiche, che nella ferita si fa restituzione amorosa al mondo della propria identità femminile. La peripezia dolorosa come via per una conoscenza liberata dai canoni del sapere patriarcale. L’io di Gina Pane è sempre in relazione con il ‘tu’, non si chiude mai nella dimensione narcisistica dell’artista, ma si fa corpo largo, multiplo, corpo virale, corpo contagio, si ibrida con l’altro sconosciuto, si fa incidere dalle pluralità ignote, si fa percorrere dalle presenze mute delle santità, lascia tracce di sé, disperde i suoi fluidi. È corpo in estensione rizomatica, superficie attraente che ci accoglie nella sua massima debolezza, nella sua massima forza.
Le performer – Monica Barone, Carlotta Spaggiari, Valentina Barbarini, Tiziana Cappella – sono le sublimi malate, le dure esperte della vita storta, le capre espiatorie di una natura che ama nascondere le ragioni della sua durezza. Resistenti al male poiché sono nate nel male o ad esse senza giustizia destinate.
Esse sono noi e così ci tingono dei loro pallori, delle loro malgrazie, delle loro rarità patologiche. Nate sbagliate non possono sbagliare, è questo che le rende incoscienze infallibili, artiste perfette, bellezze irriducibili, proclami viventi del valore artistico della difformità, del primato estetico della devianza.
Le performer non presentano solo ferite reali di consistenza autobiografica, ma incarnano la ferita dell’essere umano, che ‘è’ per natura e destino malato e morente. La fuoriuscita del sangue è solo la conseguenza visibile, nitida, evidente della ferita. Ciò che rende la ferita permanente è la cicatrice, il suo rimarginarsi e riaprirsi, il suo diventare traccia ossidata, il suo costituirsi incisione permanente nella memoria psicofisica degli individui.
Penso alla convergenza tra le fessurazioni cutanee di Gina Pane e i tagli delle tele di Lucio Fontana. In queste 4 Azioni Sentimentali il sangue assume la dimensione sospesa dell’attesa (‘Attesa, Concetto Spaziale Rosso’, Lucio Fontana 1965) e del ricordo, l’esito della ferita si trasforma in concetto spaziale, in architettura emotiva percepita nel presente, nella perduranza dell’atto performativo. In questa nostra iconostasi non usiamo violenza ai corpi, così già tremendamente violati e addolorati, non inneggiamo al martirio immolatorio, non abbiamo peccati da espiare, non vogliamo essere ‘Criste’. Rifiutiamo la funzione salvatrice della croce, al contrario intendiamo l’atto artistico come un atto di ribellione alla sofferenza, sia nella sua ineluttabilità individuale – derivata dalle patologie fisiche e psichiche – sia nella sua dimensione collettiva – causata dalle violenze che subiscono le vittime delle guerre, delle persecuzioni razziali, sociali o religiose.
I nodi concettuali che hanno garantito l’enormità dell’opera di Gina Pane sono tornati a quarant’anni dalla sua morte ad interrogarci sulla nostra condizione, in un sistema che continua a oscurare la propulsività salvifica del pensiero eco-femminista. Ritornare ai temi di Pane, farsi riattraversare dalle sue speculazioni, dalle sue visioni, dalle sue contraddizioni, ci permette di riconsiderare criticamente le questioni principianti la necessità della funzione dell’artista nella società contemporanea, straziata dalle ingiustizie e dalle intolleranze. La poesia armata di Gina Pane è un libro-guida che smina le semplificazioni, che ci mette in guardia dalla benevolenza riparatrice dell’opera-confetto, che ci impedisce le banalizzazioni, le facili modulazioni dei messaggi moraleggianti e rassicuranti.
RIFRAZIONI VISIVE
Francesco Pititto
Le tavole della storia (story-board), le sceneggiature disegnate, il racconto grafico sia preparatorio all’azione sia sostitutivo dell’azione hanno definito la pratica artistica, estetica ed etica di Gina Pane nel suo esporsi all’altro come corpo sociale, biologico e rigorosamente poetico.
La fotografia è sempre stata presente così come il tema del sacro in ogni azione performativa, oppure installativa dove il corpo di Gina Pane non c’è, ma dove sempre le immagini fotografiche – insieme agli oggetti fortemente simbolici – rifrangono, nel qui e ora dello spazio comune delle Partitions, le azioni precedenti.
Le quattro performer di Maria Federica in ‘Over Gina Pane_4 Azioni Sentimentali’ hanno agito nello stesso habitat dove erano esposte le Constatazioni di Gina Pane e diventano esse stesse rifrazioni corporee di quella partitura fotografica collocata a parete.
La relazione tra chi compie l’azione dal vivo e la potenza simbolica della sequenza fotografica provoca – tramite incarnazione ed empatia – anche una partecipazione corporea dello spettatore, sia alla performance in atto, sia alle biografie delle attrici-autrici che ai temi originari di Gina Pane come l’amore, il dolore, la natura, il donarsi totalmente all’altro, come Cristo.
Le mie rifrazioni visive, in questo contesto, non documentano nulla di quanto accade o accadrà dal vivo, se non come tavole di una storia (storyboard) che si sovrappongono, sommandosi in diversi quadri, in spazi e in tempi differenti.
Alcune immagini digitali provengono dalle prove che precedono le azioni, alcune in teatro e altre nella sala dove sono erano esposte le Constatazioni. Subiscono un passaggio su pellicola Polaroid – l’unica che permette di partecipare nell’immediato alla nascita dell’immagine analogica - che ne sfuma i contorni, le dimensioni, le cornici.
Di nuovo ri-fotografate, anche da schermo, con sovrapposizioni che escono talvolta dal formato quadrato della Polaroid in uno scorrere spazio-temporale che tende all’impossibile abbraccio, come nelle Partitions, tra passato e presente. Poi riposte definitivamente nel quadrato artefatto di una falsa polaroid digitale.
La mia rifrazione è una somma di superfici, strati complessi della complessità di ogni istante riferito all’opera di Gina Pane, comunicato in modo semplice con una sola immagine stratificata. Come sfogliare l’immagine sopra o sotto gli strati, un’immagine metafisica.