Beatrice Baruffini pone la sua attenzione su come sia cambiata la definizione stessa di violenza, cosa debba essere recuperato per individuarla, per nominarla e distinguerla, quale sia la natura e quali le sovrastrutture che l’hanno sfumata, dandole spesso un ruolo sociale confuso, così da potere arrivare a riconoscerla o disconoscerla.
C’è stato un tempo in cui le narrazioni e le azioni si muovevano attraverso rapidi atti di violenza. Fiabe, favole, miti, rivoluzioni, pratiche e tradizioni: le persone erano disposte ad accettare la violenza, come forma di giustizia terrena, a volte come eredità di un pensiero arcaico, altre come reazione ad un diverso futuro imminente forse ancora possibile.
Come sia cambiata la definizione stessa di violenza, cosa debba essere recuperato per individuarla, per nominarla e distinguerla, quale sia la natura e quali le sovrastrutture che l’hanno sfumata, dandole spesso un ruolo sociale confuso, può servire per riconoscerla o disconoscerla.
Provare a interrogarsi oggi sul significato collettivo e politico della violenza come atto e come sentimento, come forma estetica e come sostanza, alla luce della relazione che esse possa avere con il potere e con gli atti che prendono forma per scandire la storia, ci porta a chiederci come sia mutato il concetto stesso di violenza.
Richiamare alla mente le teorie di Hannah Arendt per scavare un solco o tracciare congiunture, porre queste riflessioni sul presente è un tentativo di risignificare alcune azioni o prassi che appaiono o scompaiono, si ripresentano o si allontanano da ciò che siamo.
La repressione della violenza dalla collettività passa all’individuo. Si soffoca la rabbia, sentimento che spesso è considerato socialmente non accettato, con la possibile conseguenza dell’accettazione di un destino segnato, immutabile al quale nessuno si oppone più.
“Soltanto dove c’è ragione di sospettare che le condizioni potrebbero cambiare e non cambiano scatta la rabbia” (H. Arendt): sempre meno sono gli esempi di pratiche in cui la furia non si fa viva, viene soffocata e taciuta. Senza nominarla, non siamo neanche più in grado di trasformarla, di usarla come spinta creatrice di un grido disperato.
Ci siamo chiesti se abbiamo nostalgia della violenza o se questa sua assenza, non è altro che un non saperla riconoscere, abituati a una disumana obbedienza che ci fa essere indulgenti con un tempo duro e ostinato che non bada più a noi.
Da Sulla Violenza di Hannah Arendt
Composizione performativa Beatrice Baruffini
Consulenza drammaturgica Riccardo Reina
Direzione artistica del progetto Parentele Maria Federica Maestri_Francesco Pititto
Cura progetto Elena Sorbi
Organizzazione Ilaria Stocchi
Comunicazione, ufficio stampa Giovanna Pavesi
Diffusione, cura grafica Alessandro Conti
Documentazione fotografica Elisa Morabito
Documentazione video Lapino Nero
Produzione Lenz Fondazione