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Adelchi


L’Adelchi è il lato oscuro dei Promessi Sposi: una tragedia-blind spot, un’area cieca, una zona di non visione a luminosità intermittente. In questa macchia scura, a tratti illuminata dalla presenza di Dio, si compie il comune destino luttuoso dei due fratelli – Ermengarda e Adelchi.


Questi due piani si rispecchiano nel buio/luce interiore dell’interprete, Carlotta Spaggiari/Ermengarda, attrice con disturbi dello spettro autistico, e coincidono con la sua più intima natura: duplice nel suo assoluto desiderio di presenza e bisogno di ritiro, nella ipersensibilità emotiva dispiegata in silenzio espressivo, nella straordinaria densità artistica silenziata dalla fobia comunicativa. La sua duplicità assume nella creazione scenica forme misteriose; scardinando i processi logici e analogici, le prevedibilità comportamentali, ci avvicina al sublime: forza distruttrice e rigeneratrice dell’atto performativo.

Introduzione


Dopo macroallestimento de I Promessi Sposi, prosegue il progetto biennale dedicato all’opera di Alessandro Manzoni con una creazione ispirata all’Adelchi.


Mettendo al centro della propria indagine scenico-drammatica gli autori fondativi della cultura italiana, Lenz si impone una riflessione profonda sulla potenza poetica e la retorica della lingua italiana. La messinscena della tragedia manzoniana (1822), è il motus per una riflessione sul genere tragico nel teatro contemporaneo. Ermengarda è amore psicofisico, la ferita dell’abbandono è nel corpo e nello spirito, il dolore trasfigura e cementa l’eroina rendendola muta e dura alle richieste del vivere normale. Margrete dal Faust di Goethe, Antigone di Hölderlin, Pentesilea di Kleist, Rosaura di Calderón de la Barca, Ofelia di Shakespeare, Lucia e Gertrude di Manzoni, Didone di Ovidio e molte altre figure di donna si sono sovrapposte le une alle altre, nel tempo teatrale, fino a comporne una sola, grande monumentale come un’installazione di Christo – il grande artista statuitense – sotto la quale c’è solo il vuoto, la solitudine e la libertà come pura aria.



Ermengarda diventa epifania d’incontro di molteplici storie vissute, d’amori infranti, sospesi, rimandati, dimenticati, imposti e liberati.


L’Ermengarda manzoniana rappresenta il culmine esistenziale e teatrale della remissione che le deriva dal rifiuto cui la condanna Carlo Magno, rendendola vittima innocente di una sofferenza impotente e spersonalizzante. L’epilogo della tragedia è il suicidio come gesto di estrema sottrazione dal sé e dal dolore dell’esistenza. Ecco un’altra figura di donna che ama fino alla morte e nel delirio d’amore comunica direttamente al Cielo lo stupore mortale di fronte al proprio abbandono.


Ermengarda non si arrende alla realtà della Storia, quella che i potenti maschi decidono, ma si concede totalmente al proprio sentimento, all’intima storia di amante che tutta la passione contiene, nel non detto, nel non dichiarato, nella casta costrizione dentro al proprio Io. E, come una Pentesilea delirante e lieve, lascia che Eros e Thánatos la conducano per mano oltre il margine della vita. Il coro, in soggettiva, non può che descrivere il suo ricongiungersi alla Natura intonando un requiem in progress davanti al suo corpo muto. Soltanto una sensibilità d’attrice altrettanto potente e lieve può esperire, senza finzione, un tale culmine di pathos e forza espressiva. Nell’Adelchi la Storia è contemplata attraverso il dramma interiore dei protagonisti, sublimato in una visione religiosa della vita. Adelchi ed Ermengarda sono spiriti ricchi di contrasti fra ideali e sentimenti (la pace e la gloria per il primo, l’amore ancora vivo per lo sposo per la seconda). Vivono per alti e nobili ideali, comprendono le angosce e sofferenze degli altri e trovano solo nella morte la piena realizzazione della loro complessa e travagliata personalità. Adelchi, prima di morire, dirà che sulla terra “non resta che far torto o patirlo”: si tratta del tipico pessimismo giansenistico, a cui si può opporre una concezione provvidenziale del dolore (la sofferenza è un dono di Dio poiché prova che non si è fatto il male).


L’ensemble dell’Adelchi è costituito da Carlotta Spaggiari, Monaca di Monza bambina ne I Promessi Sposi, Carlo Destro, già Fra’ Cristoforo, qui nel ruolo del giovane Adelchi, eroe morale e figura fondamentale nella poetica manzoniana e da Franck Berzieri, impegnato nella duplice interpretazione di Desiderio, padre di Adelchi e Carlo Magno, l’imperatore che ripudia Ermegarda. I tre attori, nucleo ristretto di una formazione molto più ampia, si sono formati nel laboratorio permanente rivolto a persone con sensibilità psichica che Lenz realizza dal 2000 in collaborazione con il Dipartimento Assistenziale integrato di Salute Mentale dell’Ausl di Parma. Nel lungo percorso laboratoriale che ha preceduto questo progetto performativo, si è sostanziata la ricerca pluriennale di un verbo pedagogico che permette alle persone affette da disturbi dello spettro autistico, di esprimere le proprie emozioni ‘silenziate’ attraverso le stimolazioni drammaturgico-sensoriali dell’esperienza teatrale. Questo processo rovescia la prospettiva da cui guardare l’autismo: gli apparenti limiti cognitivi e comportamentali delle persone con autismo non sono considerati sintomi di un deficit patologico, ma codici da elaborare e tradurre in linguaggio estetico contemporaneo, attraverso l’agone – fisico e vocale – con i classici.

Crediti

Media

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Rifrazioni

Corriere della Sera.it


Massimo Marino

Adelchi, Ermengarda, gli umili, i fantasmi, gli attori sensibili di Lenz Rifrazioni


Si intitola Adelchi ma la protagonista è lei, l’umiliata, l’offesa, la sacrificata, Ermengarda. Si muove in un mondo di ombre, ombra lei stessa, in una opalescente lattiginosa scena velata da teli trasparenti, nell’ultimo lavoro di Lenz Rifrazioni a Parma. Avviene nel bel festival Natura Dèi Teatri, che ha provato a dare voce all’opera che Giuseppe Verdi molto pensò e mai scrisse, il Re Lear, e ha presentato quel capolavoro che è Singspiele di Maguy Marin. Adelchi arriva in scena dopo I Promessi Sposi (realizzati l’anno scorso), in un dittico degli “umili” affidati a quegli “attori sensibili” con i quali Lenz da tempo ha scelto di condividere il proprio percorso artistico, ex degenti cronici del manicomio di Colorno, down, autistici e altre persone lancinate da una sofferenza, da un presunto deficit di comunicazione “normale”, che ne acuisce altre sensibilità, altri echi, altre presenze. Come nei Promessi Sposi, più che in quell’allestimento che invitava il pubblico a muoversi tra vari stanzini velati, qui siamo di fronte a fantasmi, in una scena dai toni smorzati, come i suoni che già dall’inizio ci circondano, una sinfonia di decolli di aerei, di guaire di cani, di folla di città o di stadio. Veli bianchi segnano quattro ambienti, questa volta frontali al pubblico. Davanti ci sta una sedia con una racchetta da tennis; dietro una poltrona con un uomo che indosserà i panni (metaforici) dei potenti, Desiderio, il padre re longobardo di Adelchi e Ermengarda, e Carlo Magno, il marito che ripudia Ermengarda, il nemico che sconfigge Adelchi. In fondo un letto coperto da una plastica che, nel momento forse più emozionante, diventerà involucro di package per ricoprire il corpo sofferente della protagonista, come nelle opere dello scultore Christo, che avvolge palazzi e monumenti. E c’è poi un corridoio laterale che permette a questi ectoplasmi di avvicinarsi, di manifestarsi. Ermengarda è affidata alla presenza mite, intensa, ricettiva di Carlotta Spaggiari, “attrice con sindrome dello spettro autistico”, ci informano le note di sala. Perfetta interprete secondo la regista Maria Federica Maestri dei due piani luce/buio di questa tragedia: “duplice nel suo assoluto desiderio di presenza e bisogno di ritiro, nella ipersensibilità emotiva dispiegata in silenzio espressivo, nella straordinaria densità artistica silenziata dalla fobia comunicativa”. È un vaso che riceve, che accumula, che incamera, che soffre questa Ermengarda, che si presenta dicendo (con voce microfonata, come tutti), ombra che spunta dall’ombra: “Sento nelle orecchie, ascolto, ricevo, sento… voce che riconosco… io la conosco… non parlo ma dico … dalla mia bocca esce il vento, sospiri, arie…”. È una figura che si umilia di fronte all’uomo in poltrona-padremarito (Franck Berzieri), a quattro zampe come un cane, offrendosi poi quasi nuda allo sposo, dal quale viene scacciata. E cerca conforto nel fratello (Carlo Destro), anche lui destinato a soccombere. Con lui gioca una silente partita di tennis senza palla fatta di evoluzioni, di abbracci, di affetto: e la palla inesistente a un certo punto si perde, svanisce, sogno e rimpianto di tempi felici. Come in Manzoni il male si fa o si subisce: e questi eroi senza gloria lo patiscono, diventando figure di martirio, cercando rifugio, forse ormai impossibile, sotto le ali del Dio che consola, qui silente. Lui inane. Lei respira sotto la plastica in fondo, ombra d’ansia. Lei si avvolge in abiti monacali e, tra il rantolo e il pianto di una lunga agonia, scandisce parole di dolore, con le orecchie tappate da cuffie, parole di tragedia come furia… irto… volto… pallida… dolore… pietà… bianco giaciglio… a terra… inaridita…offesa… in lunga litania di disarticolata sintassi, di monumentale ferita, a creare attraverso il suono e la reiterazione, una critica del significato, del mondo che infligge il dolore. I personaggi, galleggianti nella nebbia, dopo i fallimenti di Adelchi, dopo vani tentativi di duettare, si imbozzolano ognuno nel suo spazio, nei tre piani separati, in un lungo crepuscolare di questi vinti della vita: chi ha il potere (i padri), chi non ce l’ha (i figli); chi muore e chi è contento i torti di subirli, per non farli. Teatro paziente, di patimenti. Le suggestioni di questo spettacolo sono estratte dall’opera letteraria di Alessandro Manzoni e lasciate navigare in libertà, tra filmati proiettati in inquadrature tonde di una campagna cangiante, autunnale, primaverile, alberi, rami secchi, poi fiori, e cani, nel continuum del pulsare di una natura indifferente. Tale procedimento lascia a volte smarrire lo spettatore, anche perché questa tragedia non è nota, nei suoi snodi, come I promessi sposi, non è un “mito” così condiviso. Bisogna abbandonarsi alle immagini, alle parole smozzicate, lasciarsi andare a galleggiare in un mondo echeggiato, profondamente, dentro di sé. Eppure rimane ancora un’insoddisfazione, che forse pertiene al genere. Manzoni dopo Adelchi abbandonò la tragedia, forse perché con le sue rigidità espressive, il suo alveo preciso di tono e forma, non consentiva di mostrare l’infinita mobilità della realtà. Anche qui la sensazione è che il dolore nella sua reiterazione teatrale diventi, alla fine, insostenibile, già previsto, ridondante, in qualche modo retorico. L’intento di Lenz è scavare proprio anche sotto questa retorica (ci sembra). E però qui l’arbitrarietà felice, demiurgica, dei loro lavori migliori dà qualche volta saturazione prima che produttiva, sconvolgente vertigine. Lasciando ammirati, comunque, per l’opera di osservazione delle persone attori che mette in scena, in un meritorio lavoro di laboratorio di lunga durata svolto in collaborazione con la Ausl di Parma – Dipartimento assistenziale integrato di salute mentale. Maria Federica Maestri oltre alla regia firma costumi e installazione; Francesco Pititto l’accompagna nella concezione curando drammaturgia e “imagoturgia”, costruzione del mondo immaginale. La musica è di Andrea Azzali.

Il Fatto Quotidiano


Tommaso Chimenti

Adelchi, Lenz Rifrazioni ci butta in una fiaba terribile dei fratelli Grimm


Nei lavori dei Lenz Rifrazioni è più il taciuto, il non detto, il talmente elaborato e asciugato che si arriva ad un’essenza, ad una sublimazione prima della parola e poi del gesto. Leggere tra le righe, scardinare frammenti, spaziare all’interno delle righe proiettate dentro le fascinazioni, uditive e visive e sonore, contro quel buio, pericoloso come un vortice, che ammanta ed attrae a cuneo, risucchia come ago nel pagliaio. Anche quest’ultimo “Adelchi”, che arriva dopo “I promessi sposi” dello scorso anno (siamo all’interno della loro rassegna “Natura Dèi Teatri”, alla diciannovesima edizione) soffre e gode delle stesse peculiarità. Come se non ci fosse Storia, o come se la storia riuscisse a passare attraverso altri canali diversi da quelli classici del rapporto tra platea e scena. Entra attraverso i pori il disturbo, il disagio ma anche l’eleganza e la raffinatezza di un percorso certamente artistico, pienamente sociale, densamente laboratoriale, governato da esigenze sia attoriali ma allo stesso tempo di recupero di alcune patologie psichiche. Che recupero poi è parola errata in questo contesto: si vuole solamente (gigantesco pensiero ed infinito, costante adoperarsi) mettere in condizione alcune persone di esprimersi, attraverso l’universalità del teatro, dei ruoli, nello sdoppiamento del personaggio, tirare fuori quello che, con gli altri, all’esterno, nella quotidianità, è bloccato, disinnescato, fermo immobile, compresso, silenziato. Il teatro può fare. Tutti gli attori sono portatori di varie sensibilità psichiche, di vari disturbi. Sembra di essere finiti nel buco di Alice, dentro una fiaba terribile dei Fratelli Grimm. Non è tanto il nero che circonda ma questa patina solida e appiccicosa di penombra costante che affatica cuore e retine. C’è uno sforzo, voluto, condiviso, accelerato, nel cercare di mettere a fuoco figure che danzano dietro filtri come tende e separè grigi svolazzanti al passaggio, alla foga della corsa intorno ai paraventi come squali senza preda, di riuscire a concentrarsi su un’oggettistica scarna e scarsa, tentare di vedere quello che non c’è, l’invisibile al timpano ed inudibile alla pupilla. Andare a fondo, scavare. Le opere di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, sono inquietanti, diaboliche, efferate nella loro ferocia espositiva, ora criptiche ed enigmatiche adesso pulite e semplici visioni spampanate come fiori dall’odore acre di fine. Attorno al “campo di battaglia” composto da tre differenti “appartamenti”, scene in contemporanea, quadri o blocchi a vista, frazionati da teli trasparenti, filtri che da una parte rendono una prospettiva che disorienta e sbanda, dall’altra, per accumulo, la sbiadisce come telefono senza fili, la sovrappone cambiandone connotati come bolo biascicato, nebuloso, controverso, opaco come birra al frumento. L’agone-agorà a pianta centrale (c’è un qualcosa di messa e rito da catacombe in tutto questo) è recintato da teli bianchi dal quale spuntano e puntano mani e nasi e volti ciechi che premendo dall’esterno formano immagini luciferine che vorrebbero sfondare la parete, intrufolandosi con violenza dentro l’oggetto con forza dantesca infernale. Due figure mobili creano corse dadaiste e velocità futurista, mentre una siede in posizione dominante regnante su una poltrona-scranno-trono. Uno scoglio e due gioiose quanto tragiche murene segnate da un destino ineluttabile. La tragedia, scritta quasi duecento anni fa, qui si riduce e per sottrazione arriva a quattro personaggi per tre attori: Ermengarda (intensa Carlotta Spaggiari) ripudiata come sposa da Carlo Magno, e Adelchi (buona spalla è Carlo Destro) figlio dell’ultimo Re longobardo, i due fratelli manzoniani, complici accomunati da una sorte segnata lastricata di dolore, pene, sofferenze. Al centro la figura monumentale (incisivo è Franck Berzieri, Carlo Magno e Desiderio) in pigiama celeste d’ordinanza e degenza, con toni di disprezzo e affetto, cupidigia e lussuria, urla e carezze. I cani abbaiano in lontananza, il loro latrato è sterile e pungente, implorante come quello del Melampo pinocchesco. I Lenz mettono in campo un’altra performance, un’installazione umana di gesti reiterati, di battute in loop, mentre nei video alle spalle lacerano foglie rosse secche autunnali come bulldog in cerca dell’odore giusto da seguire. In questo misto di godimento e vergogna, di perdono e sconfitta, la speranza non ha solidarietà né motivo di cittadinanza; tutto è sporcato e dannato in questa Valle di lacrime, un parto che miscela il piacere dannunziano con il dolore foscoliano fino all’intima sofferenza leopardiana.

Persinsala


Daniele Rizzo

Adelchi- Natura Dèi Teatri 2014. La Speranza e l’Utopia


Prima nazionale del nuovo allestimento – firmato Lenz Rifrazioni – tratto dalla produzione del padre putativo della lingua italiana: l’Adelchi di Manzoni nella rilettura di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri va in scena all’interno del festival Natura Dèi Teatri. Dopo l’imponente I Promessi Sposi, l’interesse di Lenz sul linguaggio come strumento di cultura e potere torna a confrontarsi con Alessandro Manzoni. A essere presa in prestito, nel caso specifico, è la celebre tragedia dell’Adelchi: l’ultimo principe dei Longobardi, morto chiedendo clemenza per il padre a quel Carlo Magno cui lo stesso Desiderio aveva mosso guerra per vendicare l’onore offeso della figlia Ermengarda. Una creatura letteraria e morale incompiuta se vista nell’ottica dell’ipotetica perfezione raggiunta dall’Autore nel suo testo maggiore (I Promessi Sposi), perché – privata della presenza chiave (anche dal punto di vista narrativo) della divina provvidenza – nell’Adelchi prevale un invasivo pessimismo giansenista che allontana ogni concreta possibilità di conciliazione spirituale e di sintesi tra sofferenza e giustizia. Una posizione teologica caratterizzata dalla sostanziale negazione del libero arbitrio e dall’idea della salvezza solo per grazia di Dio, a tal punto ingombrante da costringere il nostro Autore a dar forma a un essere umano tanto inevitabilmente volto alla sconfitta («ad innocente opra non v’è: non resta che far torto, o patirlo»), quanto quello dei Promessi Sposi lo sarà al successo (secondo la riformulazione religiosa manzoniana dei relativi concetti). Dunque un’opera profondamente legata all’ineluttabilità della sofferenza e all’idea che il termine dell’esistenza non possa mai essere lieto. La violenza del dominio e il dolore arrecato anche agli innocenti (come Ermengarda, sposata e ripudiata per finalità politiche dall’amato Carlo); la possibilità di un senso della vita cui si giunge solamente – e paradossalmente – con e nella morte; il corpo e l’anima delle donne mortificato e piegato alle esigenze del potere (maschile); l’individualità della coscienza che soccombe di fronte allo Spirito Assoluto della Ragion di Stato; la parcellizzazione delle esistenze e la frammentazione della comunicazione sono elementi dirompenti per l’opaca evidenza e la trasparente emotività con cui sono presentati al pubblico da Francesco Pititto e Maria Federica Maestri. Nella restituzione drammaturgica vedremo, infatti, giochi impossibili tra fratello e sorella, voci spezzate tra madre e figlia, relazioni metaforiche tra padre e figlia, proiezioni trasfiguranti poste tra palco e platea. Tecnicismi semplici solo in apparenza, ma estremamente complessi da incastrare nella gestione dei tempi e delle dinamiche sceniche, soprattutto pensando alle sensibilità degli attori in scena, capaci di abitare una scenografia – di tre spazi lineari e paralleli, divisi da un velo trasparente – tanto essenziale quanto simbolicamente densa nell’imprimere una complessiva percezione visiva di separazione e lacerazione. Un’analisi estetica accurata dal punto di vista concettuale e glaciale da quello emotivo, che non può prescindere da quello che è uno dei tanti dettagli, l’ennesimo, che rende unico il progetto artistico ed esistenziale di Lenz Rifrazioni: la capacità di far convergere intuzioni e soluzioni drammaturgiche di assoluto valore, come i potenti echi shakesperiani nella costruzione della figura di Ermengarda e l’omogenea coerenza dell’ensemble, con l’apertura delle stesse oltre ogni delimitante definizione in angusti confini artistici o terapeutici. Non è teatro, ma neanche riabilitazione il senso di questa rappresentazione; non è interpretazione, tanto meno espressione quella degli attori; non è finzione o realtà ciò cui il pubblico assiste. Ciò che si ammira – attraverso la clamorosa qualità di Carlotta Spaggiari, Carlo Destro e Franck Berzieri – è la straordinaria sinergia nell’interminabile orizzonte della vita di una umanità che cerca se stessa e che, dopo aver esplorato le strade messe a disposizione dalla norma (che li vorrebbe in un altrove in fondo agli occhi), ha potuto scegliere l’arte per prendere e mutare forma. Una manifestazione che, senza scimmiottare ipotetiche normalità o enfatizzare una condizione aliena, semplicemente offre se stessa, demolendo ancora una volta «l’idea che un diversamente abile possa/debba approcciarsi al teatro solamente rendendo invisibile l’autenticità della propria condizione (ovvero trovando per la propria alterità una collocazione credibile rispetto alla decisione insindacabile di chi si fa metro di normalità)», come già ricordato a proposito del fantastico lavoro di Satyamo Hernandez (Le voci della metamorfosi). È teatro ed è riabilitazione; è interpretazione ed è espressione; è consapevole finzione ed è realtà immediata. È esposizione esponenziale al rischio, potente manifestazione delle mancanze umane e del corrispondente anelito che le determina in positivo e non come errore. È l’esempio più sublime di quello che la cultura potrebbe essere ma non è in un modo regolamentato da codici (scritti e orali) improntati sui canoni di un aggressivo individualismo (mors tua, vita mea). Dunque, è costruzione di un linguaggio (che ha in Manzoni il più importante esponente nella letteratura italiana) quale modello di potere non disciplinante e coercitivo, ma anarchico e creativo, il cui tentativo rappresenta l’intima essenza di Lenz Rifrazioni (che da oltre un decennio collabora con con Ausl di Parma – Dipartimento Assistenziale integrato di Salute Mentale, organizzando laboratori permanenti rivolti a persone con sensibilità speciali e portandone in scena esiti di assoluto valore artistico). Un’utopia, probabilmente, capace di ricordarci che «l’importante è imparare a sperare» (Ernst Bloch), che l’arte riesca finalmente a «introdurre caos nell’ordine», liberandoci dalla (sua) «menzogna di essere verità» (Theodor Adorno). Un’utopia non ideologica e totalizzante, perché non legata al pensiero dominante, ma esperienza pratica e rivoluzionaria di reale superamento dell’alienazione/solitudine dell’essere umano attraverso un autentico esercizio di amore per la vita nella sua vastità. Chapeau.

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