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Romeo and Juliet Concert | Natura Dèi Teatri
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Tra l’amore e la morte solo l’inutile e tragica passione dell’essere umano, Romeo and Juliet Concert di Carla Delfrate, Maria Federica Maestri e Francesco Pititto al Natura Dèi Teatri 2016 – Performing Arts Festival. Non saranno mai riconosciute abbastanza l’influenza e l’eredità di William Shakespeare nella composizione culturale e spirituale della vecchia Europa. A posteriori in …

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Significanti e significati

Tra l’amore e la morte solo l’inutile e tragica passione dell’essere umano, Romeo and Juliet Concert di Carla Delfrate, Maria Federica Maestri e Francesco Pititto al Natura Dèi Teatri 2016 – Performing Arts Festival.

Non saranno mai riconosciute abbastanza l’influenza e l’eredità di William Shakespeare nella composizione culturale e spirituale della vecchia Europa. A posteriori in ognuna delle sue pièce, ma anche nel suo corpus in generale, emerge lampante e con estrema chiarezza come e quanto un’intenzione teatrale abbia saputo plasmare le coscienze individuali su determinati ideali disciplinari.

Gli esempi, ovviamente, si sprecano. Se con The Tragedy of Othello, the Moor of Venice si impose come indissolubile il drammatico collegamento tra possesso e passione, con il The Merchant of Venice ebbe definitiva legittimazione l’antisemitismo nel pesante stereotipo dell’ebreo usuraio, avido e spietato e con King Lear trovò forma la rappresentazione del non rappresentabile, ossia l’eccesso che scardina e sconsacra ogni contenimento della natura nella personalità umana, con Romeo and Juliet, oggetto dell’ultima fatica prodotta da Lenz Fondazione, a rivelarsi fu un ben altro biopotere: quello, solo in apparenza sognante, innocuo e speranzoso, dell’amore adolescenziale.

Quella proposta dagli infelici amanti di Verona fu, infatti, una vera e propria invenzione antropologica ed è proprio per questo che, pur essendo spesso sottovalutata o ritenuta minore rispetto ad altre tragedie sulla medesima tematica, Romeo and Juliet appartiene, di fatto e di diritto, al ristretto pantheon dei capolavori assoluti.

Ideale ma non platonico, puro ma pieno, terreno e immanente alla sessualità, infinito ma solo perché volto al continuamente domani, quindi mai attuabile nell’oggi, il traboccante e reciproco trasporto che caratterizza Romeo and Juliet Concert trasfigura nelle sembianze di un archetipico quello che in realtà è il prodotto tragicamente ideologico di una forma amorosa putroppo irrealizzabile perché concepita strutturalmente contraddittoria e, pertanto, fatalmente destinata o allo scacco (della morte) o alla rinuncia (nella vita)

Con l’affermazione di un sentimento infinito e travolgente, irrazionale e incurante di ogni opposizione a sé, di un sogno eterno che anche chi adulto potrà poi rimpiangere per scaldare le notti fredde del dovere e del senso di responsabilità, Shakespeare raggiunse infatti un traguardo affatto inscrivibile nella semplice sfera della psicologia o dell’emotività, quanto in quella specificatamente antropologica, imponendo nell’immaginario simbolico occidentale pratiche culturali e discorsive volte a castrare, definendone e disciplinandone le condizioni di verità o meno, un’esperienza – l’amore – quale quid intimamente ed esclusivamente altro rispetto al calcolo razionale.

Mantenendo l’universale (il tragico) accanto all’epocale (la disperazione) propri del manifesto originario, Maria Federica Maestri e Francesco Pititto decidono di neutralizzare Romeo, privarlo dell’evidenza del corpo, di metterlo tra parentesi e consegnare l’intero onere della rappresentazione alla restituzione prismatica di una lingua tradotta nel corpo amorfo e frantumato di Juliet in cinque personaggi sperimentali e depsicologizzati, ridotti a echi e umori sognanti, protagonisti di un dramma che, reso scenicamente nell’universalità del fonemàtico, deflagra in tutta la sua drastica ed emotiva particolarità attoriale. La storia dell’Amore che naufraga nel momento in cui pensa di potersi consumare nella morte, la «deriva sonora e ritmica della drammatizzazione di Lenz» in cui a emergere è proprio l’ambiguità di un desiderio frustrato, la sua disgiunzione dalla voce (del soggetto presente che lo declama) e dalla carne (dell’oggetto, la cui assenza lo reclama), dunque l’abisso che separa la volontà dalla realtà e consegna il mondo dell’adolescenza a un destino di infelicità e quello adulto all’autocommiserazione,  ogni cosa viene trasfigurata in e da una vocalità dura e scontrosa capace di stravolgere in senso radicale quanto già in Shakespeare abitava come intuizone (e qualcosa in più :«Date parole al vostro dolore altrimenti il vostro cuore si spezza» dirà poi Malcolm nel Macbeth), vale a dire la prospettiva del linguaggio come apertura che istituisce il mondo di cui possiamo avere esperienza, ossia il precario collegamento tra significato e significante («Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per il nome, che non è parte di te, prendi me stessa», «Chiamami soltanto amore e io sarò ribattezzato; d’ora innanzi non sarò più Romeo»).

Il risultato, nonostante i margini di affinamento del meccanismo drammaturgico, impressiona. Per un verso, quella che, in origine, era una freudiana necessità pulsionale (la tensione alla pienezza fisica dell’amore, o morte, tertium non datur) diventa, in questo allestimento, l’oscura espressione linguistica del conflitto tra l’utopico impulso verso un oggettuale d’amore di cui in scena non ci sarà alcuna traccia (il significato), privato anche della controparte fisica del maschile, e la dimensione predialettica di parole che, anelando al puro significante, attraversano la complessità di uno spartito vocalico in cui sono frequenti le interruzioni, gli interrogativi, le inquietudini di chi non avrà altra scelta che soccombere di fronte a un totalizzante anelito di amore e di essere; così disperdendo (anche drammaturgicamente) la propria singolarità nella solitudine, in una momentanea persistenza patetica relativa alla vocalità, al fragile legame del fonema che anima gli amanti di una passione infinita perché incompiuta, senza fine perché priva di scopo e, di conseguenza, anche di senso.

Per l’altro, che potremmo definire intratetraleRomeo and Juliet Concert assume così le sembianze di una vera e propria contestazione della superbia del soliloquio artistico di chi sgancia lo spettacolo dalla necessaria fruizione nella mente dello spettatore e lo assolutizza al palcoscenico, così formalizzando un ammonimento da cui nessuno, per assurdo neanche Lenz, può dirsi del tutto al riparo. Strumentalizzando l’inganno autoinflitto dagli amanti suicidi per avvertire che cio cui si sta assistendo sia sì un artificio ma non un falso, perché evento reale accaduto altrove (in ognuno di noi), Lenz materializza allora una lacaniana estetica del vuoto, la castrazione simbolica di una vita che, come suggerito da Shakespeare, vede nell’arte l’unica modalità di sopravvivenza a se stessa, alla propria tragedia e al proprio caos, e di cui sia la pulizia formale che l’armonia estetica con cui Valentina Barbarini, Alessia Galeotti, Sandra Soncini, Elena Sorbi e Carlotta Spaggiari accompagnano fisicamente la propria partitura vocale rimanda a una bellezza che copre con l’apollineo il caos dionisiaco che alberga in essa, caratterizzando la viscerale e fatale doppiezza dell’amore attraverso il «sublime stato di innamoramento» (Shakespeare.  L’invenzione  dell’uomo, Harold Bloom) all’interno di una scenografia di tre spazi paralleli, sezionati da veli trasparenti, naturalizzato nei costumi e costretto nella gestualità a geometrie guidate, variabili e divergenti.

Una prospettiva di totale coerenza rispetto alla poetica inclusiva di Lenz, che in questo Romeo and Juliet Concert decide di rinunciare o ridurre ai limiti del nulla (o quasi) tutto ciò che è solito caratterizzarla (l’imagoturgia è del tutto assente), per concentrare il proprio incessante sforzo sulla scenografia verbale e così rimodulare l’atroce angoscia vissuta da chi ricambia e si vedere ricambiato il desiderio, ma non prova comunque alcuna soddisfazione, tantomeno felicità.

Dopo aver analizzato la valenza fondativa e disciplinare di artisti la cui intenzione si concentrava entro i confini nazionali (Alessandro Manzoni, Ludovico Ariosto e Giuseppe Verdi), Lenz torna a occuparsi di quello che è in assoluto il più rappresentato e rappresentativo drammaturgo d’Occidente per raggiungere, avvalendosi della collaborazione della direttrice d’orchestra e compositrice Carla Delfrate, un obiettivo duplice e sconcertante per come continua a lasciare sorgere dalla propria coerenza i germi di un percorso non lineare, ma clamorosamente rizomatico, dunque autenticamente dedito alla creazione artistica.

Perché se aver ampliato la propria visione al contesto europeo non fa altro che confermare la natura pensante del teatro di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto estendendone il limes, un teatro che non si accontenta di mostrare o raccontare, ma propone mondi diversi da abitare in cui l’incontro tra la differenza e gli altri non sia l’inferno cui l’Occidente sembra consegnarsi, è stato il coraggioso addentrarsi all’interno di un territorio inedito, quello della sperimentazione sonora della lingua, a meravigliare senza, in realtà, sorprendere.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno di Natura Dèi Teatri 2016 – Performing Arts Festival # 21
Lenz Teatro
Via Pasubio, 3/e | 43122 Parma

Romeo and Juliet Concert
da William Shakespeare
traduzione, drammaturgia, imagoturgia Francesco Pititto
musica Carla Delfrate
installazione, regia e involucri Maria Federica Maestri e Francesco Pititto
interpreti Valentina Barbarini, Alessia Galeotti, Sandra Soncini, Elena Sorbi, Carlotta Spaggiari
luci Alice Scartapacchio
cura Elena Sorbi
produzione Lenz Fondazione

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